Ho sempre immaginato che ogni momento importante della mia vita, positivo o negativo che fosse, venisse incapsulato in un contenitore trasparente e infrangibile, per essere poi conservato nell’archivio più intimo e personale che possediamo tutti: la cassaforte dei ricordi.
Il potere di questo contenitore è quello di conservare intatto il più a lungo possibile il momento, allegandovi colori, odori e suoni. È proprio su questi ultimi che vorrei soffermarmi nella mia rubrica: non so voi, ma io per la maggior parte dei miei ricordi ho una colonna sonora. La cosa bella è che spesso non ho dovuto neanche cercarla io.
Come nei film o nelle serie tv, spesso viviamo i nostri momenti indimenticabili (o li riviviamo subito dopo, quando sono ancora freschi) ascoltando canzoni che poi resteranno associate inevitabilmente ai ricordi che conserveremo.
Ma non è sempre così, e sono sicuro che voi lettori potrete confermarlo.
Spesso è la musica che viene a cercarci.
Succede così, il cantante inizia a pronunciare parole che guarda caso si addicono perfettamente al tuo momento. Le canzoni escono dalla radio, da un disco che suona in un bar o un supermercato dove ti trovi per caso, un vinile che gira a casa di amici o ritrovato in cantina; O ancora uno spot in TV o semplicemente le condivide un nostro conoscente sui social.
Ascolti casualmente e casualmente te ne innamori.
Non solo quella canzone diventerà la colonna sonora del tuo ricordo, ma si consoliderà come uno dei pilastri portanti della tua vita emotiva.
(Testo e Musiche: GILMOUR DAVID JON / LAIRD CLOWES NICHOLAS WILLIAM / SAMSON - Copyright by PINK FLOYD MUSIC PUBLISHERS LTD)
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Episodio 1: Pink Floyd – Poles Apart (The Division Bell – 1994)
Nel 2012, si è interrotto per me un rapporto di amicizia/fratellanza che ho vissuto come un lutto.
Uno di quei pugni sul petto fortissimi che ti tolgono la possibilità di respirare.
Nel mezzo di una guerra spietata scoppiata all’interno della nostra compagnia, tra antipatie e caratteri insopportabili, perdo un mio grande alleato di sempre: il mio migliore amico finisce ostaggio della fazione peggiore, la quale gli fa credere che io abbia fatto e detto cose spregevoli su di lui, in sua assenza.
È l’arma nucleare che rade al suolo il nostro rapporto di oltre 20 anni.
Spazza via i pomeriggi spensierati di due bambini davanti ai registratori a cassette e ai primi videogame. Stende un velo nero e spesso su anni e anni di sguardi d’intesa, gol a calcetto, consolazioni silenziose e abbracci rari ma unici.
Devasta e spappola come frutti troppo maturi i ricordi adolescenti delle serate in motorino e degli incoraggiamenti a vicenda, quando la vita sembrava troppo difficile e non sapevamo ancora quali davvero fossero le salite ripide.
Lui è troppo deluso e amareggiato per fidarsi ancora di me.
La mia vita da quel momento diventa un deserto radioattivo. Nella immensa desolazione che ne rimane, piccole lucine che lampeggiano con irregolare intermittenza, mi ricordano quanto sia dura incontrarlo per strada e non riuscire a salutarlo. Probabilmente siamo così devastati, entrambi, che non ci cerchiamo più.
I primi tempi li ho passati nel flagellarmi con sensi di colpa anche se colpe non ne avevo, o per lo meno, non tutte le avevo io.
Un pomeriggio, mentre mi trovavo nel mio laboratorio, intento a ripulire dai virus il pc di un cliente, radio Capital passa “wish you were here”.
Dovete credermi e non venite a cercarmi con le mazze dopo che avrò finito questa frase: avevo 27 anni e non l’avevo mai ascoltata prima. Pur non avendo grande padronanza della lingua inglese, credo di avere una discreta comprensione, così riuscì a cogliere dei passaggi importanti del testo, decisamente miei, mi si cucivano addosso.
Ma non è questo il brano finito nella capsula insieme al mio triste ricordo.
"Wish you were here" mi prese per mano e mi accompagnò alla scoperta dei Pink Floyd.
Dopo aver dato uno sguardo in giro su Spotify, scorgo nella loro discografia una copertina che mi affascinava particolarmente. Due enormi volti di metallo raffigurati di profilo, posti uno davanti all’altro, su un prato verde e poco distanti dalla famosa cattedrale di Ely. Ne cerco il significato ed è chiaro da subito che quel disco dovevo ascoltarlo: “le due strutture sono state pensate affinchè lo spettatore non le osservi contemporaneamente. Si possono notare due volti separati oppure un solo volto, ciò significa che chi guarda sta comunicando realmente con l’immagine” e poi ancora “il tema principale del disco è la mancanza di comunicazione, che nella vita di Gilmour è stata la causa della rottura di diversi rapporti”.
Così ho fatto di più che ascoltarlo: sono andato a comprare una copia su CD, da poco ripubblicato insieme a tutto il resto della discografia, in versione rimasterizzata.
Lo metto in riproduzione in macchina, mentre da solo siedo al posto di guida, non ricordo dove, di sicuro ricordo che ero solo.
Le prime due tracce mi piacciono, ma non mi rapiscono.
Poi arriva lei.
Ha aperto la portiera, si è accomodata sul sedile del passeggero, mi ha preso le mani e mi ha chiesto di chiudere gli occhi. Ma io non potevo: booklet tra le mani, leggevo e traducevo parola per parola il testo di quella che sarebbe diventata la mia canzone.
Ci sono due uomini, uno di fronte all’altro. Una resa dei conti. Tutt’ora mi piace immaginarmeli fermi con le braccia lungo i fianchi, scortati da un crepuscolo e da una leggera brezza autunnale che muove i loro capelli davanti alla fronte. Le rughe segnano il loro tempo vissuto, gli anni intensi andati. A parlare è solo uno dei due. L’altro lo guarda e lo ascolta, ma non risponde. Ma al primo non importa, non si ferma, non pretende e non si aspetta neanche una risposta alle domande che gli sta ponendo. È retorica la sua. Disarmata retorica.
Vuole sapere se chi ha davanti si fosse mai chiesto come sono andate le cose nella vita dell’altro. Se si fosse mai reso conto che forse alla fine non stava fuggendo solo dal suo amico-nemico. Ma chissà da cos’altro.
Dopo la seconda strofa, c’è un intermezzo quasi cinematografico: rumore di barche che si muovono al fianco della battigia, gabbiani che urlano, vento che soffia. Allora ho localizzato i due uomini nella mia mente: sono in riva al mare, ancora uno davanti all’altro. Il vento aumenta di intensità. Delle note a fiato, lasciano presagire l’arrivo di una tempesta. Ma i due non si spostano di un passo. Continuano a guardarsi.
Poi il motore di una barca che si accende e che accelera allontanandosi.
Così l’unico dei due uomini che fino ad allora aveva solo posto domande, smette di utilizzare i punti interrogativi e firma la sua dichiarazione
"The rain fell slow down on all the roofs of uncertainty
I thought of you and the years and all the sadness fell away from me"
La pioggia scendeva lenta su tutti i tetti delle incertezze. Ho pensato a te, e gli anni e tutta la tristezza si sono allontanati da me.
E poi, dopo una manciata di note, le ultime parole, ed è stato in quel momento che quella canzone mi è letteralmente saltata addosso, con un abbraccio fortissimo che mi tolse (e mi toglie tuttora) il fiato. Seguito ovviamente, dall’assolo di chitarra più bello mai ascoltato prima.
"I never thought that you'd lose the light in your eyes."
Non avrei mai pensato che avresti perso la luce nei tuoi occhi.
Quando dopo sei anni io e il mio amico ci siamo riavvicinati, lui mi ha invitato per un caffè. Abbiamo parlato degli anni trascorsi, delle cose che erano andate avanti nel frattempo per tutti e due. Ero seduto davanti a lui e a quella tazzina e mi sembrava di perdere ogni minuto decine di chili. Mi sembrava di respirare elio. Temevo di lievitare e sbattere la testa sotto il soffitto da un momento all’altro.
Poco prima di salutarci, davanti alla porta che tante volte ci aveva visto scorrazzare dentro e fuori da quella casa, uscì dal borsello la mia copia, quella copia, di The Division Bell. La cover in digipack era ormai provata dai numerosi ascolti, ma per me contava poco. Quel disco dovevo condividerlo con lui.
“Mi ha aiutato negli anni senza di te, a sentirti vicino” avrei voluto dirgli. Invece farfugliai qualcosa che non ricordo neanche.
Quattro anni dopo, a Natale 2021, lui me l’ha restituito in vinile.
Incontrassi Gilmour un giorno gli direi “Hai visto David? Hai fatto un disco sulla difficoltà della comunicazione, ma a me ha aiutato proprio in questo”.
Per la serie “I paradossi che aiutano a vivere”.